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Il giro-vita e i trigliceridi il cuore manda due segnali

C’ è poco da stare tranquilli. Se il “giro vita” è maggiore di 102 centimetri nell’ uomo e di 88 nella donna; se il valore dei trigligeridi nel sangue è superiore a 150 mg/dl; se il colesterolo HDL (quello definito “buono”) è inferiore a 40 mg/dl nell’ uomo e a 50 nella donna; se la pressione arteriosa è superiore a 130 (per la massima) e a 85 per la minima e se, infine, la glicemia misurata a digiuno svela un indice maggiore di 110, ci si può ritrovare affetti da Sindrome metabolica, il nuovo killer silenzioso che espone a un maggior rischio di diabete e di patologie cardiovascolari. Basta la presenza contemporanea di tre dei cinque fattori perché gli specialisti possano arrivare alla temibile diagnosi clinica. A riferirlo sono stati gli esperti americani del Programma nazionale sull’ educazione al colesterolo che, come sempre più esposti per condizioni socioambientali, sono in prima linea nella lotta ai danni di cuore e arterie. Con questi criteri di valutazione è risultato che il 25 per cento della popolazione adulta degli Usa (uno su quattro) è affetta da sindrome metabolica. E in Italia? In uno studio effettuato dal Centro di Diagnosi e Cura dell’ Obesità del Secondo Ateneo diretto dal professor Dario Giugliano, ordinario di Malattie del Metabolismo, sono state esaminate 50 donne obese. Per loro è stato attivato un programma di intervento multidisciplinare che comprendeva dieta, esercizio fisico, supporto psicologico e nutrizionale. I risultati, pubblicati sull’ ultimo numero del Journal Clinical Endocrinology and methabolism hanno rivelato che dopo un anno di trattamento la prevalenza di sindrome metabolica si è dimezzata, scendendo dal 52 al 28 per cento. “Almeno una donna obesa su due di quelle seguite presso il nostro Centro è risultata a rischio, inserita nell’ elenco dei dismetabolici. La ricaduta pratica in prevenzione è fondamentale: riuscendo a individuare, grazie a semplici parametri clinici e di laboratorio, i soggetti affetti dalla sindrome e all’ oscuro della minaccia che si portano dietro, è possibile intervenire prima che si verifichi un danno irreversibile”.

Fonte: Repubblica — 10 aprile 2003

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Prevenire le malattie cardiovascolari. Rappresentano la prima causa di mortalita’

Secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanita’ (OMS), nei Paesi occidentali circa il 50% del totale dei decessi e’ connesso ad una patologia del cuore; il dato, tradotto in cifre, corrisponde a circa 17 milioni di morti/anno (OMS 1998).

Le proiezioni epidemiologiche per il futuro non sono peraltro molto positive: l’OMS ha previsto che da qui al 2020 vi sara’ un incremento di circa 250.000 morti all’anno per malattie cardiovascolari anche nei Paesi che sino a poco tempo fa venivano considerati meno a rischio ossia quelli economicamente meno sviluppati.

Anche in Italia le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte e risultano essere per frequenza, numero di decessi e costi socio-economici, 2-3 volte piu’ gravi e pericolose rispetto alle patologie tumorali.

Ogni anno, nella popolazione italiana, si registrano circa 250 mila morti per cause cardiache e si verificano circa 100 mila casi di infarto miocardico, di cui un terzo letali (dati Istat 1995). Sebbene il rischio cardiovascolare interessi soprattutto le fasce piu’ anziane della popolazione, si stima che circa il 30% dei decessi per malattie cardiovascolari in Italia colpisca persone al di sotto dei 74 anni (f.f. redazione MinisteroSalute.it).

I numeri e le cifre dimostrano che le malattie cardiovascolari rappresentano uno dei problemi di salute pubblica piu’ importanti in tutto il mondo. Esse definiscono un insieme di patologie che riguardano cuore e sistema circolatorio (vasi sanguigni come vene, arterie etc.). Le malattie cardiovascolari comprendono l'”infarto miocardico” o attacco di cuore, l’angina, l’ictus, le vasculopatie periferiche e l’evento trombotico (occlusione di un vaso sanguigno dovuto alla presenza di un trombo o coagulo di sangue).

Le malattie cardiovascolari sono spesso il risultato di un processo patologico a lungo termine (aterosclerosi) che culmina in un evento acuto. L’aterosclerosi si forma a seguito dell’accumulo, sulle pareti interne delle grosse e medie arterie, di colesterolo, TRIGLICERIDI e detriti cellulari.
L’aumento nelle dimensioni di tali depositi, nel tempo, determina la riduzione del lume delle arterie le cui pareti possono subire alterazioni strutturali, ispessimenti e perdita di elasticita’.

In tali condizioni, il cuore o gli organi irrorati dall’arteria ostruita cominciano a soffrire di carenze di sangue ed ossigeno. Nel caso in cui l’ostruzione sia completa si ha una “ischemia” ovvero morte del territorio irrorato dall’arteria. Ad esempio, se l’organo non raggiunto dal sangue e’ rappresentato dal cuore si verifica il temibile infarto. Sebbene l’aterosclerosi e la formazione di trombi rappresentino le cause dirette o indirette della maggior parte degli infarti e delle malattie cardiovascolari, la ricerca scientifica non e’ ancora riuscita a fare piena luce sulle cause che ne inducono la formazione.

Le patologie cardiovascolari sono infatti malattie ” multifattoriali” che prevedono il coinvolgimento di molteplici elementi, definiti “fattori di rischio”. Alcuni di essi non possono essere modificati, come la familiarita’ per malattie associate all’aterosclerosi, l’eta’ e il sesso maschile.

Per altri fattori di rischio esiste invece la possibilita’ di poter intervenire in modo attivo e in prima persona (fattori modificabili). I fattori modificabili sono rappresentati da iperlipidemia (colesterolo TRIGLICERIDI e  elevati), diabete, ipertensione, fumo, obesita’, stress e sedentarieta’. Studi epidemiologici hanno dimostrato che la presenza contemporanea di due o piu’ fattori di rischio determina un incremento nell’incidenza di patologie cardiovascolari decisamente superiore alla somma potenziale dei singoli fattori (effetto sinergico). Inoltre non tutti i fattori di rischio hanno un “peso” equivalente. In particolare la quantita’ di colesterolo circolante nel sangue riveste un ruolo molto importante nella genesi di queste malattie.

Le piu’ recenti indagini scientifiche hanno posto in risalto che piu’ elevati sono i livelli plasmatici di colesterolo LDL (LDL= lipoproteine a bassa densita’ o colesterolo cattivo), maggiore e’ la frequenza degli incidenti cardiovascolari. Recenti analisi, infine, hanno dimostrato che un elevato tasso ematico di TRIGLICERIDI , in associazione a bassi valori di colesterolo HDL (il colesterolo buono), contribuisca all’incidenza delle malattie cardiovascolari. Il cambiamento dello stile di vita e dell’alimentazione rappresenta quindi la prima e piu’ importante strategia di prevenzione delle malattie cardiovascolari.

Fonte: La Stampa 31-01-2003

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OCCHIO AL LIVELLO DEI LIPIDI

I TRIGLICERIDI sono lipidi formati da glicerolo e da tre molecole di acidi grassi.

Si trovano nel sangue non solo perché derivano dai lipidi che assumiamo con il cibo, ma anche perché i carboidrati in eccesso vengono trasformati in trigliceridi per essere immagazzinati nel tessuto grasso.

A temperatura ambiente, e secondo la loro struttura, possono trovarsi allo stato liquido, come gli olii, o allo stato solido come i grassi.

In genere questi ultimi sono di origine animale, mentre gli olii sono d’ origine vegetale. Il livello di trigliceridi nel sangue è correlato al rischio di malattie cardiovascolari in particolar modo quando anche il livello di colesterolo è alto.

Nei pazienti affetti dal ipercolesterolemia il livello di trigliceridi deve esser accertato prima di intraprendere qualsiasi tipo di cura: non tutti i farmaci infatti sono in grado di svolgere un’ azione efficace su questo tipo di lipidi. Controllare periodicamente i trigliceridi e il colesterolo permette inoltre di decidere quali abitudini di vita del paziente debbano essere modificate per abbassare il rischio di malattie cardiovascolari.

Tra i cibi particolarmente a rischio, per contenuto di trigliceridi, segnaliamo i grassi animali, i formaggi grassi, le uova e il cervello.

Inoltre bisogna sapere che l’ abuso di alcol comporta un aumento dei trigliceridi. Per bruciare i grassi in eccesso sono raccomandate quindi la dieta, ma anche un’ adeguata attività fisica.

Fonte: Repubblica — 04 maggio 1996

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Trigliceridi: Ruolo nelle patologie

Nel corpo umano, alti livelli di trigliceridi in circolo sono connessi all’arteriosclerosi e al rischio di infarto del miocardio e di ischemia cerebrale. Comunque, l’impatto negativo di livelli crescenti di trigliceridi è minore di quella del rapporto crescente LDL:HDL. Il rischio può essere in parte ridotto da una proporzionalità fortemente inversa tra il livello di trigliceridi e il livello di colesterolo HDL. Un’altra patologia causata da alti livelli di trigliceridi è la pancreatite.

Linee guida

L’ American Heart Association ha pubblicato linee guida per i livelli di trigliceridi:

Livello mg/dL Livello mmol/L Interpretazione
<150 <1.69 Quantità normali, rischio molto basso
150-199 1.70-2.25 Borderline alto
200-498 2.25-5.63 Alto
>500 >5.65 Molto alto, rischio elevato

Si noti che questa informazione è rilevante per il livello di trigliceridi testato dopo il digiuno medico, dato che la concentrazione di trigliceridi resta temporaneamente più alta per un periodo dopo i pasti.

Riduzione del livello di trigliceridi

Esercizio fisico e diete ad apporto medio-basso di carboidrati contenenti acidi grassi essenziali sono raccomandati per la riduzione del livello di trigliceridi. Quando queste falliscono, olio di pesce, niacina, ed alcune statine sono consigliate per ridurle. L’assunzione precedente di alcolici può provocare tassi elevati di trigliceridi, e ridurre l’uso di alcol è comunemente raccomandato per i pazienti con elevato tasso di trigliceridi

Fonte: Wikipedia.org

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Trigliceridi insidia-cuore

Parlando di troppi grassi nel sangue è al colesterolo elevato che si pensa come attentatore delle arterie e del cuore. Ma spesso ci sono comprimari più oscuri non meno pericolosi: i trigliceridi alti. Il loro ruolo come fattore di rischio indipendente di coronaropatia è controverso, però vi concorrono, inoltre sono componenti di quella frequente sindrome metabolica che è causa di cardiopatie, si associano a basse HDL cioè il colesterolo buono, aumentano il rischio di pancreatite e sono coinvolti nella steatosi, quando vengono ridotti nei dislipidemici questo si lega a meno eventi coronarici. E l’elenco delle colpe può continuare: è bene perciò non sottovalutarli. Ma che cosa sono i trigliceridi, come si previene e si cura il loro eccesso?

Occhio a grassi, calorie, zuccheri

In sostanza sono i lipidi più abbondanti nell’organismo, presenti soprattutto nell’adipe sottocutaneo (trigliceridi perché ogni molecola contiene tre acidi grassi), forniti dai grassi alimentari ma anche formati come riserva energetica da altri componenti della dieta quando le calorie totali sono troppe. La prima misura nella correzione dell’ipertrigliceridemia è quindi, come nell’ipercolesterolemia, comportamentale: da ridurre, oltre ai cibi grassi (tipici i formaggi), soprattutto calorie totali, zuccheri semplici (ricordando dolciumi, marmellata, bibite gassate, frutta e succhi), alcol (che stimola la sintesi nel fegato); tenere poi controllato il peso e fare esercizio fisico, eliminare il fumo. Le cause dei trigliceridi alti però non sono solo o direttamente alimentari, ci sono anche obesità, diabete, fattori ereditari, nefropatie croniche, ipotiroidismo e altro ancora. La gestione iniziale dipende quindi dal profilo di rischio coronarico del soggetto (alto se probabilità oltre il 20% di eventi a dieci anni anni o coronaropatia o diabete) e dal livello d’ipertrigliceridemia, che è considerata leggera tra 150 e 200 mg/dl, elevata tra 200 e 500 e molto elevata oltre i 500. Bisogna fare counselling al paziente se è responsabile lo stile di vita, indagare se c’è sindrome metabolica, ricercare altre cause secondarie, normalizzare la glicemia se c’è diabete. In molti casi d’ipertrigliceridemia non occorrono farmaci; quando questi sono necessari puntano a raggiungere prima di tutto gli obiettivi per le LDL.

Farmaci, combinazioni con cautela

Gli agenti farmacologici più usati sono le statine, i fibrati, la niacina, gli oli di pesce (omega-3). Nei casi con valori tra normali ed elevati in genere non sono necessari farmaci e il goal è appunto ridurre in altro modo le LDL. Nell’ipertrigliceridemia elevata nei soggetti che non hanno raggiunto le LDL ideali nella prima linea si usano le statine, in quelli più vicini all’obiettivo e non coronaropatici si possono considerare le altre opzioni, anche se i dati di efficacia come prevenzione primaria sono scarsi. Alla luce delle più recenti raccomandazioni per una diminuzione più aggressiva delle LDL nei soggetti a maggior rischio coronarico, possono occorrere combinazioni degli altri farmaci con le statine, scegliendole individualmente: per esempio niacina se le HDL sono basse e le LDL alte, fibrati se HDL e LDL sono adeguate e i trigliceridi alti, omega-3 se c’è coronaropatia. La terapia di combinazione richiede però un attento monitoraggio e basse dosi per possibili rischi, come quello di rabdomiolisi (danno muscolare che può portare a morte) risultato aumentato da alcune associazioni di statine e fibrati. Nell’ipertrigliceridemia molto elevata, infine, i farmaci sono in genere necessari e spesso combinati, sempre usando cautela; se i valori sono superiori a 1000 un obiettivo prioritario è diminuire il rischio di pancreatite acuta e occorre una dieta fortemente ipolipidica.

Fonte
Robert C. Oh e coll. Management of Hypertriglyceridemia. Am Fam Physician 2007; 75: 1365-71.

DA WWW.DICA33.IT

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Trigliceridi nel sangue? Meglio controllarli a stomaco pieno

Tra le analisi del sangue che si effettuano normalmente a stomaco vuoto di prima mattina c’è anche quella che permette di valutare il livello di trigliceridi nel sangue. Questo valore viene normalmente considerato come un indicatore del rischio di malattie cardiovascolari. Secondo quanto emerge da due studi pubblicati dal Journal of the American Medical Association il livello di trigliceridi che andrebbe preso in considerazione è però quello non a digiuno.

I trigliceridi sono dei grassi che nel nostro organismo svolgono normalmente la funzione di riserva di energia. Prendono il proprio nome dal fatto che ogni loro molecola contiene tre acidi grassi. Un’alimentazione sbagliata, ipercalorica o troppo ricca di grassi, può portare a un eccesso di colesterolo e trigliceridi nel sangue nel quale vengono trasportati in grosse molecole dette lipoproteine. Queste ultime se troppo numerose o in particolari condizioni possono depositarsi sulle pareti arteriose anche a livello coronarico, restringendone il diametro.

Il primo di questi due studi ha trovato una forte associazione tra i livelli di trigliceridi misurati non a stomaco vuoto e l’incidenza di malattie cardiovascolari nel corso di un monitoraggio di 7587 donne e 6394 uomini iniziato nel 1978 e terminato nel 2004. Nel secondo, invece, viene messa in comparazione diretta la capacità predittiva dell’analisi a digiuno o a stomaco pieno su un campione di 26.509 donne. Anche in questo caso viene mostrato che l’analisi non a digiuno sembra essere quella più affidabile.

Patrick McBride della University of Wisconsin School of Medicine and Public Health ricorda in un editoriale sulla stessa rivista che: “Il livello post-prandiale dei trigliceridi deve essere misurato in specifiche condizioni per migliorare l’affidabilità del test, cosa che complica l’integrazione di questo tipo di analisi nella pratica clinica”, sembra dunque che dovremo aspettare ancora prima di poter fare almeno un’analisi del sangue non all’alba e senza colazione, ma con comodo e belli satolli.

Fonte: Nordestgaard BG, Benn M et al. Nonfasting triglycerides and risk of myocardial infarction, ischemic heart disease, and death in men and women. JAMA 2007; 298(3): 299-308.
Bansal S, Buring JE. Fasting compared with nonfasting triglycerides and risk of cardiovascular events in women. JAMA 2007; 298(3):309-316.

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Diete: qual è la migliore?

Le diete di tendenza, che fanno notizia su giornali e riviste oltre a preoccupare talvolta medici e nutrizionisti, non sono molto diverse l’una dall’altra in quanto a efficacia: non ne hanno poi molta e, pur riducendo un po’ il rischio cardiovascolare connesso al sovrappeso e facendo perdere qualche chilo, richiedono una strettissima aderenza per funzionare. È quanto rilevato in uno studio di Michael Dansinger del Tufts-New England Medical Center di Boston, pubblicato sul Journal of the American Medical Association.

Le diete “griffate”, come la Atkins o la dieta a zona, fanno molti adepti in tutto il mondo occidentale ma, soprattutto per alcune, l’efficacia è solo raramente verificata in indagini con tutti i crismi medico-scientifici. In quest’indagine Dansinger ha confrontato le diete più famose: la Atkins, basata sulla riduzione dei carboidrati senza controllo invece sui grassi assunti; la dieta a zona, che consiste nel tenere d’occhio l’indice glicemico dei cibi – ovvero un parametro che indica la velocità di assorbimento dei carboidrati in essi contenuti – e l’equilibrio dei diversi macronutrienti: proteine, grassi, carboidrati; la dieta Weight Watchers, che consiste nel ridurre porzioni e introito calorico; la dieta Ornish, che invece si basa sulla riduzione dei grassi assunti.

Queste quattro diete sono state fatte seguire per un anno a un gruppo di 160 individui in sovrappeso o obesi tra i 22 ed i 72 anni, suddivisi equamente in quattro gruppi. Dopo un anno coloro che erano stati più fedeli ai precetti della dieta assegnata erano dimagriti più o meno tutti dello stesso peso indipendentemente dalla dieta seguita e tutti avevano avuto un moderato beneficio su parametri con cui si può quantificare il rischio cardiovascolare, quindi colesterolo “cattivo” e trigliceridi nel sangue.

In particolare, ha rilevato Dansinger, i seguaci della dieta Atkins (il 53 per cento dei quali ha completato il periodo di dieta senza “mollare”) sono dimagriti di circa due chili, quelli della dieta a zona (il 65 per cento ha completato il “percorso”) di circa tre, quelli della dieta Ornish (50 per cento di tenaci) poco più di tre chili, infine i seguaci della dieta Weight Watchers (65 per cento di tenaci) poco meno di tre chili.

In termini statistici queste differenze non sono così significative per promuovere una e bocciare le altre diete. Inoltre nessuna differenza significativa si è registrata neppure per quel che riguarda la riduzione di rischio cardiovascolare: tutte più o meno determinano un decremento del 10 per cento del rapporto colesterolo cattivo/colesterolo buono. In ogni caso l’aderenza al regime alimentare è il problema riscontrato per tutte le diete esaminate, con maggiori disagi per la Atkins e la Ornish forse per le loro regole un po’ “estreme”.

Questo studio, oltre a dimostrare che le diete di voga non sono poi migliori l’una dell’altra, indica soprattutto che la strategia migliore per dimagrire è adottare il più possibile una dieta personalizzata stilata da dietologi esperti, che tenga conto di abitudini, preferenze e stile di vita del paziente, in modo da massimizzare l’aderenza alla cura dimagrante.

Yahoo salute 05/01/2005

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